Arte e neuroscienze convergono per
lo studio del cervello
GIOVANNA
REZZONI & GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 04 febbraio
2023.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/RECENSIONE]
Dallo studio del cervello mediante il disegno di
Leonardo da Vinci allo studio delle aree corticali della visione di Semir Zeki fondatore della neuroestetica, sono state
numerose le connessioni, le convergenze e le sinergie tra arte e scienza per
comprendere aspetti e fenomeni dipendenti dall’organizzazione funzionale delle
reti neuroniche dell’encefalo. Arte e scienza, tanto diverse per oggetto e
scopo, sono accomunate dal portare il nuovo, l’una attingendolo dalla
mente, l’altra dalla realtà esperibile, pur avendo nella dimensione mentale un
passaggio cruciale, come si rileva per elezione nella scienza matematica.
La consapevolezza di questa origine psichica, e in
ultima analisi dall’organo della mente, ha avuto un ruolo non secondario
nel progresso culturale umano. Lucrezio osserva che gli uomini nello sviluppo
del loro incivilimento crearono le arti e le tecniche guidati dalla natura
stessa e spinti dal bisogno, dalla necessità e dall’utilità. Diogene di Enoanda afferma infatti: “L’utilità e le circostanze, col
passare del tempo, generarono tutte le arti”[1], e
Lucrezio spiega che non furono Demetra, Atena, Efesto, Apollo, le Muse, ma la
natura e l’ingegno umano sotto lo stimolo della necessità a creare tutte le
arti[2].
Leonardo da Vinci aveva concepito, prendendo spunto
dalla cartografia adottata dai suoi amici navigatori che incontrava alla corte
di Lorenzo il Magnifico, la realizzazione di un atlante di anatomia e, quando ne
sostiene il valore, spiega anche le ragioni
principali che hanno limitato per secoli il progresso negli studi anatomici:
“E tu che dici
essere meglio veder fare l’anatomia che vedere tali disegni, diresti bene se
fosse possibile vedere in una sola figura tutte le cose che nei disegni si mostrano;
ma con tutto il tuo ingegno in questa non vedrai e non avrai notizia se non d’alquante
poche vene […]. E un sol corpo non bastava a tanto, che bisognava procedere di
mano in mano con tanti corpi per avere completa cognizione, la qual cosa feci due
volte per vedere le differenze […]. E se tu avrai l’amore a tal cosa, tu sarai
forse impedito dallo stomaco, e se questo non ti impedisce tu sarai forse
impedito dalla paura di abitare in tempi notturni nella compagnia di tali morti
squartati e scorticati e spaventevoli a vedersi; e se questo non t’impedisce forse
ti mancherà il buon disegno, che si addice a tale figurazione; o, se avrai il
disegno, non sarà accompagnato dalla prospettiva; e, se lo sarà, ti mancherà l’ordine
della dimostrazione geometrica, o il calcolo delle forze e della potenza dei
muscoli; o forse ti mancherà la pazienza; così che tu non sarai diligente. Se
tutte queste cose sono state in me o no, i centoventi libri[3] da me composti ne daranno sentenza, nei quali non
sono stato impedito né da avarizia o negligenza ma solo dal tempo. Vale”[4]/[5].
Già vent’anni
dopo la morte del maestro di Vinci per diventare anatomisti non bastava più essere
medici con buona tecnica chirurgica, ma occorreva dimostrare abilità nel
disegno dal vero[6]. Il maestro di Vinci aveva lasciato una traccia nella
cultura medica seguita da Vesalio che, nel suo De humani corporis fabrica
(1543), presenta una grafica a stampa studiata dal vero in sala settoria in cui
si vede un cranio scalottato con l’aracnoide incisa e riversa in basso così da
scoprire gli emisferi cerebrali, disegnati nel dettaglio delle circonvoluzioni,
costeggiate dai vasi della pia meninge trasparente[7].
L’importanza del disegno per lo studio del cervello,
dal tempo di Leonardo da Vinci al ventesimo secolo, è dovuta alla supposizione
che l’anatomia, ossia la morfologia macroscopica, contenesse le informazioni
necessarie a comprendere la fisiologia, sulla base di una visione, che oggi ci
appare ingenua, di proprietà psichiche distinte secondo i criteri della cultura
popolare e localizzate in aree e formazioni particolari. Tuttavia, la ricerca
di sedi funzionali specifiche e distinte come nel paradigma del midollo spinale
è stata di fondamentale importanza per scoprire la somatotopica cerebrale e
tutte le funzioni localizzate della corteccia cerebrale, e ha costituito un passaggio
fondamentale per l’accesso al livello microscopico dell’organizzazione, che ha
consentito di comprendere quanto erronea e distante dalla realtà fosse la
visione frenologica e il suo approccio alla fisiologia dell’encefalo.
Siamo abituati a pensare alle arti come ad attività
umane che si esercitano grazie a tecniche apprese con un lungo apprendistato;
in altri termini, tendiamo a prediligere l’aspetto dell’abilità acquisita,
sviluppata e perfezionata con l’aiuto di nozioni, la guida dell’imitazione e la
pratica dell’esercizio, anche se non ci sfugge che le doti naturali hanno
spesso un peso determinante, sia per la scelta di diventare artisti, sia per la
riuscita nella pratica di un’arte. Ma in cosa consistono queste doti naturali?
Sappiamo per esperienza che non tutti hanno talento e
passione per il disegno, la pittura, la musica, il canto, la danza e, quando un
bambino mostra una precoce propensione per una di queste arti, ci si affretta a
stabilire da chi abbia “preso”, implicitamente attribuendo il talento a eredità
familiare. Ma fino ad oggi non sono stati individuati alleli di geni noti in
grado di predisporre alla musica o alla pittura ed è opinione diffusa che si
debbano indagare possibili fenomeni di epistasi, ossia di interazione
gene-gene, quando ci si trova di fronte ad artisti nati con genitori o altri
familiari similmente dotati, oppure di emergenesi, ovvero interazione
sinergica di tratti co-occorrenti o interazione tra fattori genetici e
biologici, nel caso in cui il talento appaia in una famiglia che sembra esserne
del tutto priva.
Per quanto ci riguarda, riteniamo che si dovrebbe
indagare alla ricerca di un endofenotipo cerebrale corrispondente a
ciascun talento artistico. D’altra parte, siamo ben edotti dell’importanza dell’esercizio
precoce della percezione e delle abilità motorie connesse con la tecnica
artistica e, pertanto, non ci sorprende che molti ricercatori ritengano il
talento per l’arte un’abilità totalmente acquisita, dipendente dalla precocità
e durata dell’esercizio quotidiano, come dalla qualità dell’insegnamento. Se
questo è vero, allora la ricerca di endofenotipi cerebrali predisponenti alle
arti figurative o alla musica non sarebbe più tanto fondata e, al massimo,
potrebbe approdare alla definizione di profili funzionali indotti dall’apprendimento.
Esistono sia studi di osservazione che avallano l’importanza
dell’apprendimento, sia prove indirette desumibili da corsi intensivi di tecnica
artistica: modesti disegnatori trasformati in abilissimi pittori iperrealisti,
secondo un’aneddotica particolarmente diffusa negli USA in anni recenti. Tuttavia,
è comune esperienza che vi siano persone, non solo fin dall’infanzia meno
dotate della media, ma soprattutto non disposte a fare esercizi d’arte perché
non attratte dall’idea o del tutto avverse, per aver fatto esperienze frustranti
di incapacità o inadeguatezza. È ragionevole supporre che esistano differenze cerebrali
tra costoro e i coetanei virtuosi delle singole arti, anche se oggi non siamo
ancora in grado di stabilire con precisione quanto di tali differenze sia già
presente alla nascita e quanto sia dovuto alle modificazioni strutturali
indotte dall’apprendimento.
A differenza di quanto presupposto nei luoghi
comuni, secondo cui si è stonati o intonati, si sa o non si sa disegnare[8], le
osservazioni e gli studi sistematici rivelano piuttosto la presenza nelle
popolazioni di una gamma continua di gradi di inclinazione e di abilità, dai
più bassi a quelli più elevati. È dunque ragionevole supporre che anche per la
predisposizione innata si abbiano gradi variabili, anche se non con l’ampiezza
di gamma e il divario che si osserva per le prestazioni, verosimilmente influenzate
dallo studio delle tecniche e dall’esercizio.
Nell’individuazione di elementi cerebrali associati
all’arte per il momento non si è andati molto oltre il rilievo di un aumento di
dimensione di aree corticali implicate nell’esercizio della pratica artistica
e, a parte il patrimonio ormai classico di dati di neuropsicologia clinica
ricavati dall’osservazione degli effetti di lesioni cerebrali negli artisti, che
funge da guida per lo studio di nuovi casi, non è stata ancora individuata una
nuova traccia per cercare le basi delle arti nelle reti neuroniche dell’encefalo.
Ma i numerosi spunti di riflessione che ci ha suggerito un articolo di Amy McDermott, pubblicato in questi giorni, ci hanno indotti a trattare
l’argomento in questo sia pur breve saggio.
(Amy
McDermott, Art and neuroscience converge to explore disorders of
the brain. Front Matter
in Proceedings
of the National Academy of Sciences USA 120 (5) e2221843120 – Epub
ahead of print doi: 10.1073/pnas.2221843120, 2023).
La provenienza dell’autrice è la seguente: Columbia University, New York,
NY (USA); Section “Front Matter” Proceedings of the National Academy of Sciences
USA, Washington, District of Columbia (USA).
Dunque, assumendo come tema il titolo dell’articolo
di Amy McDermott, potremmo innanzitutto osservare che
l’arte e le neuroscienze, create dal cervello, possono essere impiegate come
strumenti per studiare il cervello stesso. Anche se, come si vede, noi abbiamo
deliberatamente riferito lo studio al cervello in generale e non esclusivamente
al cervello patologico come la Mc Dermott, sia perché
fin dai pioneristici studi anatomo-clinici di Broca, Wernicke e Dejerine, è stata desunta dalla sintomatologia da danno
focale la funzione normale delle aree colpite, sia perché questo tipo di studi,
che ha un altro consolidato paradigma nella produzione artistica degli
psicotici, solo raramente ha fornito qualche aiuto alla comprensione dei
processi patologici.
Amy McDermott comincia
narrando il caso clinico di un’affermata illustratrice americana.
Lonni Sue Johnson era celebrata quale autrice di numerose
copertine di New Yorker e autrice di opere esposte alla White House a Washington.
Verso la fine del 2007 contrasse un’encefalite virale in una forma così grave
da ridurla in fin di vita. La massiccia distruzione di neuroni ippocampali, non
solo le impediva di apprendere e formare anche le memorie più banali, ma le
precludeva la possibilità di rievocare ricordi e conoscenze acquisite in
passato; tuttavia, fu presto evidente ai ricercatori che studiavano il suo caso
che, nonostante la grave amnesia, la Johnson aveva conservato una parte del
bagaglio culturale artistico che aveva accumulato e sviluppato nel corso della vita
intera.
Le memorie artistiche di Lonni
Johnson, come quelle procedurali, avevano resistito più di tante memorie
esplicite di tipo semantico o episodico, indicando che la loro base era
costituita da un livello più stabile e consolidato di funzionamento sinaptico.
La Johnson è stata inclusa, per studi cognitivi, in campioni costituiti da
artisti colpiti da danno neurologico, e la McDermott osserva
che anche altri pittori e illustratori avevano conservato le proprie abilità e
le avevano impiegate per trovare conforto nella sofferenza e, in alcuni casi,
avevano comunicato con delle nuove opere l’esperienza della malattia che aveva
cambiato loro la vita.
La pittrice contemporanea Katherine Sherwood nel
1997 ebbe una massiccia emorragia dell’arteria silviana
con emiplegia destra, afasia grave con alessia e altri deficit cognitivi. Sottoposta
a trattamenti riabilitativi, a venti anni di distanza, nel 2017, aveva
recuperato le abilità comunicative, ma non l’uso dell’arto superiore destro,
così aveva imparato a dipingere con la mano sinistra. Prima dell’emorragia
cerebrale, quando già insegnava all’Università della California a Berkeley ma
era ancora sconosciuta come artista, soleva inserire copie di scansioni MRI del
cervello nelle sue opere. Katherine Sherwood era affascinata dalla teoria di
Michael Talbot secondo cui la realtà oggettiva non esiste e l’universo stesso è
un ologramma o un’immagine virtuale: accoppiando immagini MRI tratte dalla
biblioteca di bioscienze di Berkeley a piccoli ologrammi come allusione alla
teoria di Talbot, aveva creato lavori di arte visiva molto apprezzati.
Quando fu sottoposta a scansioni angiografiche
cerebrali e vide l’interessantissimo disegno vascolare del suo cervello, le
vennero in mente i disegni della dinastia cinese Song risalenti all’anno 1000 e
il testo taoista cinese The Secret of the Golden Flower che aveva ispirato
una serie di suoi lavori precedenti; così disse ai medici: “Ho bisogno di
quelle immagini”, al che tutti scoppiarono a ridere; allora lei spiegò loro di
essere un’artista, che già in passato aveva condotto studi artistici sulla morfologia
delle immagini cerebrali.
Questo secondo caso, di una pittrice nota negli USA,
non evidenzia nessun aspetto di fisiologia cerebrale legato all’evento
patologico in un’artista, ma riporta solo l’effetto suggestivo ed evocativo
delle immagini tecnologiche del cervello e dei suoi vasi sulla sua ispirazione.
Simile a questo sono altri casi per la cui narrazione si rimanda al testo dell’articolo
originale.
In realtà, un filone di studi classici avviato in
seno alla psichiatria riguardante la creatività artistica nei pazienti
psicotici, e negli schizofrenici in particolare, rimane ancora di grande
interesse. Si riporta dunque, a completamento di questo aggiornamento, buona
parte di un saggio recente su questo argomento, che oggi non riscriveremmo in
modo diverso.
Schizofrenia e Creatività (pubblicato
il 23-11-2019; è stata omessa la recensione del lavoro di Sampedro
e colleghi, che si può leggere nel testo completo)[9].
Per oltre un
secolo sulle attività creative del paziente schizofrenico sono stati versati i
proverbiali fiumi di inchiostro, dal primo studio condotto da Max Simon nel 1876
alla trattazione esaustiva proposta a cento anni di distanza da Silvano Arieti[10], si possono riconoscere due costanti: l’attribuzione
di un valore funzionale all’economia psichica del paziente e l’impiego del
materiale da parte dello psichiatra per accedere a contenuti mentali ritenuti
rilevanti per la comprensione dei processi psicopatologici. Nel nuovo millennio,
al mutare dell’approccio clinico, che include come si ricordava di recente lo studio
analitico dei processi cognitivi[11], gli esiti dell’esame dei prodotti della creatività e
dell’ideazione dei pazienti psicotici sono mutati radicalmente.
In questo cambiamento,
che per certi versi segna una rottura con una concezione più che con una consuetudine,
a nostro avviso assumono particolare rilievo e interesse i modi e le ragioni
delle differenze, che possono insegnarci molto sul rapporto fra realtà fenomenica
del paziente e deformazioni indotte dagli schemi interpretativi adottati dalla
cultura psichiatrica corrente.
Mi sembra
opportuno rilevare che in psichiatria e in psicologia si dà per implicito il
rapporto stretto, quasi di identificazione reciproca, tra arte e creatività: è
questa una cosa che non appartiene alla realtà storica del pensiero filosofico,
e non potrebbe essere altrimenti, in quanto la creatività è intesa come una
facoltà dell’intelletto, per sua natura costante, mentre l’arte, quale prodotto
della cultura, muta al mutare della sua concezione epocale. Inoltre, è
opportuno sottolineare che l’influenza dell’approccio della scienza cognitiva
allo studio del cervello ha spostato la focalizzazione dei ricercatori dall’esame
degli effetti prodotti dall’atto creativo all’analisi dei processi cognitivi elementari
all’origine dell’atto stesso.
In realtà,
il connubio indissolubile fra arte e creatività, acquisito nelle consuetudini
preriflessive del pensiero popolare, deriva dalle estetiche dell’idealismo
romantico e si trova in Hegel e Shelling[12], poi ripreso da Benedetto Croce[13] e Giovanni Gentile[14], che concepivano l’arte come creazione, in
contrapposizione polemica con il concetto di origine platonica dell’arte che
imita la natura ed esprime idealità. È evidente che la concezione legata, più o
meno consapevolmente, all’idealismo romantico abbia facilitato la
considerazione del lavoro d’arte quale oggetto emancipato dalle intenzioni
coscienti dell’autore, favorendone la considerazione psicoanalitica di luogo
privilegiato per l’espressione dell’inconscio[15].
Prima di recensire
uno studio che adotta il modello della “vulnerabilità condivisa”[16], presentato in questi giorni nell’anteprima
elettronica della pubblicazione cartacea, ripercorriamo in sequenza cronologica
gli studi di maggior rilievo, secondo la ricostruzione di Arieti, sulle attività
creative dei pazienti schizofrenici.
Si ritiene che Max Simon sia stato
il primo psichiatra (1876; 1888) a compiere uno studio analitico di disegni di
persone affette da disturbi mentali. Simon, condizionato dai criteri
nosografici e diagnostici dell’epoca, classificò i disegni osservati in cinque
tipi principali di opere, ciascuno dei quali corrispondeva perfettamente a una
sindrome psicopatologica. Per primo, notò somiglianze fra l’arte degli psicotici
e quella dei primitivi, ossia autori che non avevano modelli da imitare fuorché
il vero; così come fra i disegni di questi pazienti e quelli dei bambini, che
non sono esperti nella lettura della realtà e non dispongono di destrezza
manuale esercitata.
Nel 1880 furono pubblicati gli studi
dello psichiatra italiano Cesare Lombroso, divenuto tristemente famoso per la
sua arbitraria attribuzione a particolari tratti somatici del valore rivelatore
di specifiche qualità psichiche, come il possedere una personalità criminale.
Anche il Lombroso propose l’accostamento fra l’arte dei primitivi e i disegni
dei pazienti psicotici, ma soprattutto tentò di interpretare i conflitti
psichici degli autori dall’analisi dei loro lavori, e rilevò, in un’epoca pre-psicoanalitica,
la presenza di un simbolismo sessuale.
Fritz Mohr non si limitò all’osservazione
della produzione spontanea, ma escogitò dei test di disegno che impiegò come
ausili diagnostici (1906). Tentò di rintracciare una sorta di codice inconscio nelle
rappresentazioni grafiche: nei disegni di pazienti schizofrenici catatonici ritenne
di aver riconosciuto elementi indicativi di impedimento all’espressione della
volontà.
Nel 1922, quando ormai in Europa i
principi e il metodo della psicoanalisi freudiana erano conosciuti anche oltre
la ristretta cerchia dei medici psichiatri, Hanz Prinzhorn classificò tutti gli studi condotti fino al quel
momento su disegni e dipinti di pazienti psicotici, ripartendoli in tre
categorie metodologiche: 1) approccio psichiatrico; 2) approccio folkloristico;
3) approccio psicoanalitico. Il contributo di Prinzhorn
è interessante perché prende le distanze da tutti i contemporanei e, affermando
che i lavori artistici dei malati di mente dovevano essere intesi quale
espressione dell’intera personalità, nega ai tre approcci a quel tempo impiegati
il valore di metodi di studio dei processi artistici. L’unico approccio valido
per giudicare disegni e dipinti è, secondo lui, quello estetico, anche nel caso
di opere realizzate da persone sofferenti di disturbi psichici. Il metodo
psicoanalitico, secondo Prinzhorn, sebbene possa
essere utile per far luce sui processi inconsci e particolarmente sui conflitti
del paziente, ha ben poco valore per lo studio della creatività nel cervello
sano o ammalato.
In quel periodo si pubblicarono
opere ritenute importanti sulla creatività psicotica, ma furono probabilmente sopravvalutate
per la fama dei loro autori (Schilder, 1918; Morgenthaler, 1922; Pfeizer,
1925), perché non sembrano aggiungere molto a quanto, anche più
dettagliatamente, era stato esposto nelle monografie dei contemporanei.
Delgado (1922), sotto l’influenza
delle teorie psicoanalitiche, considerò il materiale artistico prodotto dai
pazienti schizofrenici come un’espressione di istanze inconsce estremamente
ricca di simbolismi sessuali, che riteneva utili alla comprensione psicologica
di un tipo di paziente, quale è lo psicotico, per definizione poco accessibile
all’analisi psicologica mediante le tecniche dell’esame ordinario basato sull’intervista
e il colloquio. A conclusioni opposte giunse Pfister (1923) che criticò il lavoro
di Delgado, affermando che la presenza di contenuti sessuali nei disegni degli
psicotici è del tutto eccezionale.
Il primo studioso americano che fornì
dettagliate interpretazioni della figurazione prodotta da pazienti con diagnosi
di psicosi fu Nolan D. C. Lewis (1925, 1928), che adoperò il paradigma freudiano
in una chiave personale per conferire valori di senso latente o criptico alle
forme rappresentate. Lewis attribuì notevole importanza al desiderio di morte
da parte dei pazienti, a proposito del quale dice che è “camuffato in modo così
abile che il soggetto stesso rimane inconsapevole della sua esistenza”. Rilevò poi
in pazienti psicotici di entrambi i sessi, di ogni età e nazionalità la
presenza di alcuni temi figurativi costanti e dominanti: il padre o l’analista,
o una sintesi fra queste due figure, l’occhio malvagio, l’occhio di Dio
che “tutto vede”. È interessante notare che la presenza di occhi isolati dal
corpo e coscientemente considerati dall’autore quale simbolo di un controllo o
di un’azione benefica o malefica universale, sono stati rinvenuti nei disegni
degli psicotici dallo stesso Silvano Arieti e, in tempi recenti, da molti psichiatri,
anche tra i membri della nostra società scientifica.
L’osservazione di Karpov (1926), della
comparsa di sintomi nelle espressioni artistiche prima che nelle manifestazioni
clinico-comportamentali, accreditò il metodo di chiedere ai pazienti l’esecuzione
di compiti grafici, di un valore significativo per la diagnosi precoce. Vinchon trovò conferma della comparsa, nelle
rappresentazioni esaminate, di segni del disturbo psicotico prima che fossero clinicamente
evidenti.
Henry Ey[17] (1948) classificò le espressioni artistiche del malato mentale in quattro
categorie: 1) forme estetiche senza rapporto apparente con il disturbo
psichico; 2) forme estetiche specificamente modificate dalla malattia; 3) forme
estetiche di proiezione patologica; 4) forme estetiche immanenti nei contenuti
psichici deliranti.
Due anni dopo ebbe una notevole risonanza
il lavoro compiuto con due sole ragazze schizofreniche da Margaret Naumburg (1950): l’impiego dell’espressione figurativa a
scopo psicoterapeutico le aveva consentito di dimostrare che le forme
simboliche tracciate dalle pazienti contenevano non solo la storia emotiva
della loro vita, con i loro conflitti e le loro sofferenze, ma anche le
soluzioni dei principali problemi. La Naumburg
riferiva che, nel corso della psicoterapia, le pazienti abbandonarono
gradualmente le stereotipie di moto e le forme arcaiche di comunicazione, assumendo
una crescente libertà di espressione. La sua narrazione, avvincente e
convincente, caratterizzata anche da un “lieto fine” temporaneo – non verificato
da un follow-up a distanza – indusse molti a condividere la tesi che la
terapia artistica fosse il miglior modo per accrescere nei pazienti la
coscienza dei propri conflitti e la capacità di rappresentarli e comunicarli
verbalmente.
Il valore di questo studio è
grandemente ridimensionato ai nostri occhi, non solo perché riguarda due soli
casi e i benefici – verosimilmente temporanei – ottenuti dalla terapia
artistica potrebbero essere ottenuti con altri mezzi in grado di accrescere
attenzione autodiretta e insight, ma soprattutto perché il metodo
adottato è di fatto una “realizzazione creativa” ad hoc, ispirata alla
teoria del conflitto intrapsichico quale causa della schizofrenia. Tale
concezione ha portato la Naumburg a cercare “conflitti
eziologici” nelle manifestazioni emozionali e vedere una sorta di “soluzione
del conflitto” nella capacità di non abbandonarsi al funzionamento psicotico, imparare
a prenderne le distanze e impegnarsi per migliorare la qualità della
comunicazione, grazie all’interazione gratificante con la psicoterapeuta.
Il contributo di Francis Reitman (1951,
1954) è particolarmente interessante perché, in controtendenza con l’opinione
unanime della somiglianza fra produzione schizofrenica e arte contemporanea,
che aveva indotto molti artisti o aspiranti tali a mimare la psicosi per
attrarre l’attenzione dei critici, sostenne e dimostrò che le somiglianze sono
solo superficiali. Le peculiarità dei lavori degli schizofrenici e i caratteri
specifici e riconoscibili dipendevano – secondo Reitman – principalmente dalle
anomalie cognitive dei pazienti. Un’opinione che sembra quella di uno
psichiatra di oggi, consapevole degli stretti rapporti fra processi cognitivi e
creativi. Reitman spiegava che, al di là di quanto dichiarato dagli stessi artisti
seguaci delle tendenze allora all’avanguardia, era possibile riconoscere una riorganizzazione
deliberata della realtà in strutture o relazioni di forma e colore complesse,
generalmente sostenute da tinte ricercate e studiate, anche quando apparentemente
gettate sulla tela in modo istintivo, caotico e improvviso. Al contrario, il
lavoro degli schizofrenici denunciava un’intrinseca povertà di modi e mezzi,
con tinte spesso elementari, rivelando mancanza di ideazione strutturata,
disintegrazione delle relazioni percettive e dissoluzione dei concetti. Un
elemento fondamentale dell’analisi di Reitman è l’origine delle peculiarità
dell’arte psicotica da disturbi dei processi cognitivi, a loro volta originati
dalle cause del disturbo mentale stesso.
Il valore delle osservazioni e
deduzioni di Francis Reitman si apprezza maggiormente se si considera che nel
1950, in occasione del Primo Congresso Mondiale di Psichiatria, si tenne a Parigi
l’Esposizione Internazionale di Arte Psicopatologica, che fu occasione
per sublimare nella cultura ufficiale, con grande risonanza internazionale, l’espressione
artistica delle persone affette da disturbi mentali, accompagnata dall’interpretazione
didascalica degli intellettuali più autorevoli del tempo, che la proponevano
come l’ultima corrente nell’arte, contraddistinta da un valore di verità e purezza
che la collocava su un piano superiore alla produzione artistica che mirava a
stime di valore commerciale. In realtà, in quella grande operazione, si poteva
leggere anche la partecipazione di soggetti interessati a una
strumentalizzazione della sofferenza psicotica a sostegno di tesi ideologiche propugnate
nel mondo dell’arte. Chi sia interessato a questa mostra e alla cultura che la
produsse potrà trovarne un resoconto nel volume pubblicato da Volmat nel 1955, che contiene la riproduzione di 169 opere
di autori affetti da disturbi mentali, e propone una rassegna esaustiva del
pensiero dell’epoca al riguardo[18].
Infine, prima di considerare
brevemente il contributo di Silvano Arieti, ricordo il rifiuto di Dax (1953) di interpretare il ricorrere dell’occhio nei disegni
degli schizofrenici secondo il simbolismo corrente che lo riportava al
controllo della coscienza sul soggetto, collegata a sensi di colpa, alla
sorveglianza del soggetto sul mondo, alla vigilanza dell’Ente Supremo sul
mondo, e così via, ritenendo di poterlo spiegare secondo un modello arcaico di
simbolizzazione che avrebbe accomunato gli psicotici agli antichi Egizi. Nell’antico
Egitto la rappresentazione di un occhio avulso dal corpo aveva 5 significati
simbolici principali: 1) occhio del sole o della luna; 2) occhio sacro; 3)
occhio del sacrificio; 4) occhio dell’immortalità; 5) occhio del male.
Silvano Arieti apre il capitolo
dedicato alle attività creative dei pazienti schizofrenici, nell’Interpretazione
della Schizofrenia, esercitando la sua vena poetica per ricordare che lo
stato mentale imposto dalla patologia psichica è una condizione di sofferenza
umana: “Quando il dolore è così intenso da non avere più accesso al livello
della coscienza, quando i pensieri sono così dispersi da non essere più
comprensibili ai propri simili, quando i contatti più vitali col mondo sono
recisi, neppure allora lo spirito dell’uomo soccombe e il bisogno di creare può
persistere. La ricerca, l’invocazione, l’angoscia, la ribellione, il desiderio
possono essere tutti presenti ed essere riconosciuti nella caligine della
tempesta emotiva del paziente schizofrenico e nello sgretolarsi della sua
struttura cognitiva”[19].
Oltre all’analisi critica degli
studi condotti in precedenza, che consente di distinguere nell’arte dei
pazienti schizofrenici quanto sia da attribuire alla cultura del paziente e
dello psichiatra e quanto sia realmente dovuto alla malattia, il contributo
principale di Silvano Arieti consiste nel riconoscimento di tratti della
cognizione psicotica, caratteristici del pensiero verbale, anche nel processo
creativo. In particolare, rileva l’attuazione del principio di von Domarus, presente nel pensiero paleologico e consistente
nel dedurre l’identità di due soggetti dall’identità dei predicati: uno psicotico
citato dal Bleuler spiegava di essere la Svizzera perché questa nazione, come
lui, amava la libertà; una paziente di Arieti affermava: “La Vergine Maria era vergine.
Io sono vergine, dunque sono la Vergine Maria”. Un’altra paziente identificava un
altro uomo con suo marito, trascurando tutte le differenze somatiche e di altro
genere, e giustificando la sua certezza con il fatto che entrambi suonavano la
chitarra. Questa facilità di identificare fra loro soggetti del tutto diversi
accomunati da una proprietà o da un’azione materiale, o talvolta metaforica, consente
agli psicotici di creare figure simboliche multisignificative,
mediante fusione o condensazione.
Un esempio straordinario di questo
meccanismo, citato da Arieti, è costituito da uno storico caso studiato tanti
anni prima da Bobon e Maccagnani (1962): il paziente,
partendo da sei figure, con le quali riempie i sei riquadri di un test grafico,
e dai loro nomi, realizza delle fusioni progressive, prima a due a due, poi
sempre più complesse, fino a disegnare un’unica figura contenente tutte quelle
iniziali. Ogni disegno era contraddistinto dal nome e, dunque, tutte le nuove
figure create per fusione, da neologismi ottenuti dall’unione dei nomi iniziali[20].
Più in generale, Arieti contesta la
nozione comune negli anni Settanta di una maggiore tendenza a disegnare e
dipingere degli psicotici rispetto alle persone non affette e, citando
statistiche di Volmat, riferisce che solo il 29% dei
pazienti psichiatrici dipinge spontaneamente. Sostiene, poi, che l’elevata concentrazione
di contenuti sessuali nei lavori degli schizofrenici non è un dato reale,
lasciando intendere che potrebbe originare da una bias interpretativa.
In proposito, afferma: “A mio giudizio, però, l’attribuzione allo schizofrenico
di una motivazione primitiva, infantile o puramente sessuale è un banale
errore. Mentre l’espressione sessuale ha raggiunto recentemente un grado di
frequenza senza precedenti nell’arte visiva degli individui normali nella
cultura occidentale, l’arte schizofrenica sembra proporsi sempre più obiettivi
diversi. Sarebbe però altrettanto erroneo affermare che l’arte schizofrenica
ignori il sesso. Ciò che conta non è soltanto la natura specifica della
motivazione ma il modo in cui la motivazione è realizzata artisticamente e in
cui la patologia si manifesta attraverso la realizzazione”[21].
Il suo giudizio sull’arte degli
psicotici diagnosticati di schizofrenia risente molto della concezione psicoanalitica
della mente, con riferimenti obbligati ai processi primario e secondario, ma è
attento allo stile cognitivo: “Da un lato, la regressione fa riemergere la
cognizione tipica del processo primario assieme a una rinnovata disponibilità di
forme non abituali. Dall’altro, abbiamo il riaccendersi di fantasie e di
impulsi motivazionali, mai realizzati nella vita, i quali chiedono ora di essere
realizzati sulla carta e sulla tela, così come nella maggioranza dei pazienti
trovano realizzazione in deliri e allucinazioni”[22].
Per passare alla considerazione della
ricerca più recente, seguiamo Degmecic, dell’Università
di Osijek (Croazia), che lo scorso anno ha pubblicato una rassegna molto
dettagliata degli studi condotti negli ultimi anni sulla creatività degli
schizofrenici.
Degmecic riporta la definizione di creatività[23] che costituisce il riferimento per la maggior parte dei ricercatori in
questo campo: un’idea o un prodotto che è sia nuovo o originale che utile o
adattativo. Come si può facilmente notare, si tratta di una formulazione
volutamente generica e inclusiva, in grado di comprendere uno spettro di azioni
mentali e materiali notevolmente ampio, che può andare dalla rappresentazione
isomorfa di una forma concettuale elementare, fino all’invenzione di un nuovo
strumento elettronico per misurare fenomeni non ancora studiati; dall’invenzione
di una nuova posata, allo sviluppo di una modalità comunicativa gratificante in
un contesto frustrante. Si nota poi la definitiva rottura del rapporto privilegiato
con la realizzazione artistica, ossia con il prodotto che può riflettere con
maggiore immediatezza l’immaginazione di una persona e rendere la sua facilità
ad esprimersi secondo canoni estetici, di gusto formale o di semplice aderenza
alle virtù morfologiche del vero[24].
Degmecic osserva che, a dispetto del valore della creatività al livello personale e
sociale, la tendenza delle persone creative a soffrire di ciò che oggi
chiamiamo disturbi mentali è stata rilevata da millenni. Evidenze
empiriche di un rapporto tra creatività e psicopatologia sono cominciate ad
emergere verso la metà del ventesimo secolo. Sono numerosi gli studi che hanno
indagato connessioni fra processo creativo e psicopatologia, ed altrettanto numerosi
quelli che hanno analizzato i rapporti tra schizofrenia e creatività. Tuttavia,
non sono emersi da questa ricerca elementi di assoluto rilievo o da notare
perché in contrasto con le nozioni acquisite negli altri campi di studio dei
rapporti fra basi neurofunzionali dei processi cognitivi e comportamento.
Degmecic sottolinea che esercitare le facoltà creative può essere terapeutico per
psicotici e pazienti sofferenti di altri disturbi mentali, e che le terapie
basate su arti creative correttamente esercitate in contesti regolamentati,
clinici in generale e psichiatrici in particolare, hanno fatto registrare
effetti notevolmente positivi per la salute dei pazienti[25].
Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza
e invitano alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE”
del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanna
Rezzoni & Giovanni Rossi
BM&L-04 febbraio 2023
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La Società Nazionale
di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience,
è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data
16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1]
Frammento di Diogene di Enoanda tratto dall’edizione di C. W. Chilton, Lipsia 1967,
cit. a p. 477 di Tito Lucrezio Caro, La Natura (De Rerum Natura
con testo latino a fronte), nel Piccolo Glossario di Concetti Lucreziani
di Salvatore Rizzo, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1980. Per una
raccolta esaustiva delle iscrizioni reperite e conservate del filosofo epicureo
si consiglia: Diogene d’Enoanda, i frammenti (a
cura di Angelo Casanova), Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di
Scienze dell’Antichità Giorgio Pasquali, Firenze 1984.
[2] Cfr. Tito Lucrezio Caro, op.
cit., V, 921 e sgg.
[3] Si riferisce alla ripartizione
per argomenti o capitoli delle sezioni del Trattato concepito come Atlante.
[4] Carlo Pedretti, L’Anatomia
in Leonardo – Arte e Scienza, pp. 114-116, Giunti, Firenze 2000.
[5] Note e Notizie 03-07-21 Specchio
della psiche e della civiltà – tredicesima parte, paragrafo 26: Perché da Erofilo al Rinascimento si è scoperto così
poco sul cervello.
Si trova anche accedendo dalla copertina e scegliendo “Tredicesima Parte”.
[6] La tradizione del buon disegno degli
anatomisti è sopravvissuta nelle principali scuole mediche europee fino al Novecento:
si pensi ai disegni dei due Premi Nobel Camillo Golgi e Ramon y Cajal, per
rimanere al cervello e ai neuroni (Cfr. Specchio della psiche e della
civiltà, op. cit. § 26).
[7]
Cfr. Andreas Vesalius, De humani corporis fabrica – libri septem, 1543. Si
ricorda che, durante gli studi all’Università di Padova, Andreas van Wesel, italianizzò il suo nome in “Vesalio”, latinizzato
nel suo trattato anatomico scritto in latino. L’immagine degli emisferi
cerebrali realizzata da Vesalio ha costituito a lungo un prototipo per il
disegno anatomico ed è riprodotta nelle principali trattazioni di storia della
medicina (Cfr. Specchio della psiche e della civiltà, op. cit. § 26).
[8] Si chiama “stonata” nel canto
una persona che non riesca a imitare correttamente le note di una melodia
emettendo note sbagliate; così si chiama “squadrata” una persona che non riesca
a seguire un ritmo. Ma, in realtà, vi sono persone che sbagliano anche le
sequenze di note più semplici e familiari (“stonata come una campana”), persone
che stonano quando devono riprodurre successioni insolite o a loro poco
familiari e, infine, persone che stonano solo nei brani virtuosistici per
cantanti professionisti. Così, c’è chi non riesce a seguire col canto il più
semplice tempo di valzer e chi si confonde solo con elaborati tempi composti. Si
ricorda, in proposito, che la capacità di riprodurre strutture ritmiche rientra
nei test di valutazione neuroevolutiva dell’età prestazionale dei bambini.
[9] Note e Notizie 23-11-19 Schizofrenia
e Creatività.
[10] Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., I vol. cap. 20, pp. 478-510, Feltrinelli,
Milano 1978.
[11] Note e Notizie 16-11-19 Trattamento
cognitivo della schizofrenia.
[12] Giovanni Guanti, Creatività,
ne “Gli Strumenti del Sapere Contemporaneo”, Grande Dizionario Enciclopedico, Vol.
II: I Concetti, p. 163, UTET, Torino 1985.
[13] Benedetto Croce, Nuovi Saggi
di Estetica (1918), Laterza, Bari 1958.
[14] Giovanni Gentile, La
filosofia dell’arte, Sansoni, Firenze 1931.
[15] Giuseppe Perrella, Appunti su Arte e Cervello,
p. 3, BM&L-Italia, Firenze 2016.
[16] Per la recensione si veda Note
e Notizie 23-11-19 Schizofrenia e Creatività.
[17] Henri Ey (1900-1977), psichiatra francese celebre per il Manuale di Psichiatria
che porta il suo nome ed è stato pubblicato, a cura di Paul Bernard e Charles
Brisset, a lungo dopo la sua morte. Autore di oltre 500 scritti, con il suo organodinamismo, teoria che cercava una sintesi fra
conoscenze biologiche e psicoanalitiche, ha notevolmente influenzato anche la
cultura psichiatrica italiana.
[18] Volmat R., L’art psychopatologique,
Presses Universitaires, Paris 1955.
[19] Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., I vol. cap. 20, p. 478, Feltrinelli, Milano
1978.
[20] Nei seminari didattici del
nostro presidente veniva presentata una copia della straordinaria tavola creata
da questo paziente di lingua francese. I disegni iniziali erano un pesce, una
ragazza, un succhiotto, un bruco, una mucca e una locomotiva (poisson, pucelle, sucon, chenille, vache, machine); così la condensazione della ragazza
col pesce – una sorta di sirena – è definita poicelle;
la fusione col succhiotto, sucelle; l’insieme
di bruco e succhiotto, sucenille; l’unione
della mucca con la locomotiva, mache; e così
via. L’ultima onirica e impensabile fusione di tutte le figure è denominata poisucevamachenille.
[21] Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., I vol. cap. 20, pp. 481-482, Feltrinelli,
Milano 1978.
[22] Silvano Arieti, op. cit., p.
481.
[23] Abbiamo qui riportato la
traduzione letterale della definizione ufficialmente adottata, così come si è
affermata nell’uso corrente, ma il termine creativity
andrebbe sostituito con creation, ossia creazione.
Infatti, “un’idea o un prodotto” nuovi rappresentano una creazione, e
non si identificano con il processo che li ha generati (creatività) e
che può generare tanti altri elementi differenti. L’errore non è puramente
linguistico, ma logico. La creazione di un oggetto rientra nel denotativo
di quella particolare cosa realizzata; la creatività riguarda il connotativo di
una categoria di processi mentali dai quali origina una gamma potenzialmente illimitata
di elementi differenti.
[24] Si ricorda che le “virtù
morfologiche del vero”, intese soprattutto come bellezze naturali, sono
universalmente apprezzate perché il
cervello si è evoluto, nella filogenesi, memorizzando percezioni della realtà.
[25] Degmecic D.,
Schizophrenia and creativity. Psychiatria Danubina 30 (Suppl 4): 224-227, 2018.